Compositore italiano dalla lunga e prolifica carriera, Stefano Taglietti è una figura di spicco della musica contemporanea. Le sue opere sono state eseguite in tutto il mondo, calcando palchi prestigiosi come la Berlin Philharmonie, l’Opera di Norimberga, il Festival dei Due Mondi di Spoleto e il Teatro La MaMa di New York. La cifra distintiva del suo linguaggio è la straordinaria capacità di fondere, in uno stile personalissimo, generi vasti e apparentemente distanti. In questa conversazione, affronteremo con Taglietti non solo il suo processo compositivo, ma anche il ruolo cruciale che egli ricopre come appassionato divulgatore della musica nuova.
Ciao Stefano e benvenuto sulle pagine di Obiettivo Contemporaneo.
Nella tua produzione la chitarra, classica ed elettrica, ricorre spesso, sia come solista che in ensemble. Da dove nasce questa tua attenzione per lo strumento?
Grazie Pier Paolo per le domande e complimenti per il progetto “Obiettivo Contemporaneo”. La mia attenzione verso la chitarra nasce dal fatto che questo strumento, a differenza di altri, ha conosciuto, e continua a vivere, un notevole sviluppo sia sul piano stilistico che su quello tecnico ed espressivo. Dal punto di vista acustico, le tecniche chitarristiche vanno oltre la prassi tradizionale, includendo interazioni dirette con le corde per la produzione di armonici e suoni delle tecniche estese, l’utilizzo del plettro, dei polpastrelli, delle unghie – naturali o artificiali – e persino piccoli battenti. A ciò si aggiunge l’impiego del corpo risonante della cassa armonica: questo variegato universo sonoro risulta incredibilmente interessante, poiché permette di plasmare suono e scrittura con una sorprendente varietà timbrica.
Poi c’è la chitarra elettrica. Essendo uno strumento elettroacustico, essa offre una libertà di personalizzazione del suono molto più ampia rispetto a qualsiasi altro strumento elettrificato. Grazie all’uso di pedali-effetti ed elaboratori digitali del suono, consente di raggiungere una gamma e una qualità timbrica davvero straordinarie.
Questo mondo ha già contribuito enormemente all’evoluzione della musica, ma rimane ancora tanto da esplorare. Si pensi solo ai repertori, alle prassi esecutive, alle tecniche e alle sonorità che sono stati sviluppati negli ultimi cinquant’anni: dalla chitarra classica e acustica fino a quella elettrica, questi strumenti sono stati autentici manifesti generazionali fino alla fine degli anni ’70. Non si può ignorare il fatto che la chitarra sia stata il simbolo della comunicazione socio-politica di una intera generazione; essa è stata utilizzata per veicolare attraverso la musica, sia esclusivamente strumentale che strumentale-vocale, testi visionari della cultura psichedelica e di poesia sociale, con contenuti di una visione del mondo pacifista, che si opponevano a quelli di una società conformista e razzista ( a quanto pare oggi abbiamo avuto una brutta ricaduta). Quel contesto storico e culturale ha lasciato un segno profondo nello strumento stesso e nel repertorio attuale tale per cui, sebbene quel mondo oggi non esista più in quelle forme, esso è stato però assorbito, trasformato e reinterpretato in nuovi linguaggi e forme. Di quell’universo ci resta infatti un patrimonio sonoro vastissimo: una miriade di stili e repertori nati da quell’epoca continuano a essere musicalmente rilevanti. Come compositori, abbiamo la possibilità di riflettere su quei mondi – passati e presenti – e di rielaborarli, aprendo altre strade ed estetiche.
Il tuo linguaggio sembra intrecciare mondi diversi, dentro e fuori dall’ambito classico. Qual è il filo che unisce queste esperienze e ti permette di armonizzarle senza perdere identità?
Ho vissuto un percorso ricco di esperienze incredibilmente varie, un intreccio di situazioni cercate e altre avvenute per caso, tutte decisive nel plasmare la mia identità. Ho trascorso i primi trent’anni della mia vita a Olevano Romano, dove ho attraversato l’adolescenza studiando pianoforte e ascoltando di tutto, anche su indicazione degli amici più grandi e ascoltando continuamente la radio classica. Poco dopo, ho iniziato a suonare le mie composizioni originali da solo e con un gruppo di Progressive Rock; sono cresciuto immerso nell’ambiente creativo degli artisti tedeschi borsisti di Villa Massimo e dell’Accademia d’Arte di Berlino (presenti ad Olevano), tra compositori, artisti visivi, scrittori, fotografi e architetti. Ho frequentato per diversi anni il BussottiOperaBallett ed esplorato un ventaglio musicale che spaziava da Monteverdi a John Cage.
Fui proprio in quegli anni che venni invitato dalla leggendaria Ellen Stewart (dopo aver collaborato con lei a Spoleto nella produzione di un’opera di teatro musicale) a suonare a New York nel teatro La MaMa dove presentai la mia musica di fronte a un pubblico internazionale (dove era presente anche il pianista Richard Beirach). Ricordo con piacere l’incontro casuale, sempre a New York, per strada con Philip Glass; le serate trascorse al Knitting Factory seguendo concerti di gruppi d’avanguardia della scena newyorkese.
Subito dopo suonai in Svizzera con Dom Um Romão, storico percussionista dei primi cinque album dei Weather Report, e a Berlino ebbi l’occasione di lavorare insieme a Reinhold Friedl e Mario Bertoncini.
Ho assistito a concerti dal vivo di Jaco Pastorius, Astor Piazzolla e Keith Jarrett e ho avuto la fortuna di suonare con Evan Parker, Karl Potter ed altri. Per anni ho coltivato un’amicizia intensa e creativa con il mio maestro Hans Werner Henze, ricevendo sia molti insegnamenti da lui ma anche complimenti per il mio lavoro compositivo. Ho scritto molta musica su commissione di importanti istituzioni. Ho collaborato con l’artista visivo Bizhan Bassiri per quasi tre decenni ed è proprio questo uno dei periodi più significativi della mia carriera. Questa esperienza mi ha permesso infatti di realizzare concerti scenici in Francia, Turchia, Bosnia (Sarajevo) e in teatri e festival in tutta Italia. Attraverso Bassiri, ho conosciuto artisti come Jannis Kounellis, Michelangelo Pistoletto, Carla Accardi, Alfredo Pirri, Nunzio e Marco Bagnoli, Emilio Prini, Ettore Spalletti, Alberto Garutti e moltissimi altri. Tra le esperienze più toccanti ci fu quella di suonare per due volte con un progetto internazionale nel teatro di Srebrenica ancora danneggiato dalle bombe, davanti a giovani che prima di quel momento non avevano mai visto e ascoltato un concerto (molti di loro sopravvissuti ai massacri del generale Mladic, o nati appena dopo la guerra).
Mi scuso per aver fatto questo noioso elenco (che è anche ridotto), ma ritengo che esso sia necessario per far capire alcuni degli aspetti significativi delle cose che scrivo. Tutto ciò che sono deriva anche da queste esperienze. Per me esiste sempre un filo continuo tra memoria presente e identità.
Percepisco il tempo come un flusso ininterrotto, in cui il passato si riformula costantemente nel presente; allo stesso modo, concepisco il suono e la composizione come un insieme di presenze unitarie che si condensano in modo irrazionale. Nei miei lavori ci sono spesso riferimenti a contesti culturali o ambienti simbolici, ma mai citazioni dirette. Quello che emerge dalla mia musica è legato a concetti e influenze culturali e non si troveranno mai citazioni esplicite, imitazioni, artifici o sovrapposizioni in stile crossover, né soluzioni di stampo puramente accademico. Non adotto mai un’esibizione compiaciuta di tecnicismi e materiali vari.
Per me, tutti i materiali utilizzati devono rispondere a una necessità autentica e funzionale all’idea compositiva. Devono essere inseriti in un tessuto fluido, dove ogni elemento trova una propria connessione organica con gli altri. Non riesco a immaginare di lavorare diversamente.
Sono un uomo-musicista che vive immerso nella realtà che mi circonda, ascoltando e interagendo con i suoni che si fondono con le mie esperienze interiori. Mi muovo tra il distacco dal senso pratico del sociale e l’influenza degli eventi sociali stessi, anche reinventando un mondo di fantasia. Mi considero un antiaccademico, e dico spesso che l’accademismo si basa sull’uso di materiali altrui senza molta rielaborazione, mentre la condizione dell’opera d’arte è diversa e utilizza la propria immaginazione, elaborando il materiale esistente per diventare poi qualcos’altro. Personalmente, non mi riconosco in particolari modelli ma, come tutti, ho dei riferimenti. Nel corso degli anni, e ancor prima di iniziare questa esperienza radiofonica, proprio come tanti di noi, ho ascoltato migliaia di brani. Pur avendo una conoscenza musicale piuttosto vasta, non posso fare a meno di interpretarla attraverso una prospettiva personale.
Essere autentico significa mantenere un legame vivo con ciò che si sperimenta: credo fermamente che il vissuto sia la componente principale di qualsiasi compositore. Si è ciò che si è, partendo da ciò che si vive. Per questo penso che sia fondamentale “armonizzare” la propria esperienza con ciò che si scrive.
Questo concerto ha per me un valore unico, rappresentando uno dei pezzi più rilevanti degli ultimi anni. Si tratta, in realtà, di un concerto quadruplo, dato che oltre ai tre solisti c’è anche un violino concertante, anche se poi il titolo è rimasto “concerto triplo”. I Solisti Aquilani e il direttore artistico Maurizio Cocciolito volevano un brano speciale da dedicare al cinquantesimo anniversario della fondazione del gruppo. Fu allora che proposi al direttore l’idea di un pezzo con un organico particolare: chitarra elettrica, pianoforte, percussioni e l’orchestra d’archi del gruppo aquilano. La proposta venne accolta immediatamente nel corso di una breve telefonata. Qualche giorno dopo venni contattato nuovamente da Cocciolito, che mi suggerì di coinvolgere come quarto solista il loro straordinario primo violino, Daniele Orlando. Accettai con grande entusiasmo, ma ormai il titolo del concerto era già stato presentato come “Concerto Triplo” in prima assoluta. Seguendo una vecchia tradizione marinara, secondo cui non si dovrebbe mai cambiare il nome di una “barca”, il concerto in questo caso, decidemmo all’unanimità di mantenere il nome originario, senza modifiche.
La sfida più impegnativa è stata integrare la chitarra elettrica mantenendo un equilibrio convincente con gli strumenti della tradizione. Non volevo ricadere in sonorità ridondanti, eccessivamente cariche di effetti o prevedibili nei loro tratti più convenzionali e stereotipati. Il mio obiettivo era ottenere un suono limpido, pulito, ma al tempo stesso incisivo nel fraseggio e nelle interazioni ritmiche e timbriche. Questo concerto è un universo costruito intorno alle corde: dagli archi al pianoforte, che ha le corde percosse, fino al violino concertante e alla chitarra elettrica. Ogni elemento doveva essere intrecciato in un dialogo fluido sostenuto da una scrittura musicale convincente.
Ho dedicato molto impegno nel creare quel travestimento dei suoni che mescolasse il pianoforte, parti di vibrafono all’unisono e risonanze sovrapposte tra chitarra e violino, successivamente riprese e ampliate dalla sezione degli archi. Ho lavorato su intrecci ritmici e tessiture in contrasto, con frequenti richiami a etnicismi immaginari e pressioni ritmiche volutamente dissociate. Durante la stesura di questo lavoro, l’intenzione era chiara: dare al suono una dimensione chiara, fisica, tattile, come se fosse una presenza concreta.
La naturalezza di cui parli corrisponde esattamente all’approccio con cui cerco di usare la tecnica compositiva: uno strumento per far emergere l’essenziale, senza mai lasciare che gli artifici tecnici appesantiscano o irrigidiscano il risultato finale. Per me il “materiale” musicale rappresenta solo il punto di partenza, uno stato grezzo privo di reale vitalità artistica. In pratica i parametri musicali devono essere sollevati verso una condizione espressiva diversa, trascendente. Superare la materia è il vero nodo: darle una tensione emotiva, sensibile capace di colpire profondamente e far dimenticare l’origine e la provenienza degli stessi materiali. È un processo analogo all’osservazione di un dipinto riuscito: non ti soffermi sui pigmenti o sulle sfumature tecniche, ma ciò che ti cattura è l’essenza dell’opera. Allo stesso modo, quando ascolti un pezzo di qualità non pensi più agli artifici numerici o all’organizzazione formale, ma percepisci un flusso unico e avvolgente, un tutt’uno emozionale e coerente. Ogni volta che scrivo cerco, provo sempre di ottenere questo: far scorrere e dialogare gli eventi musicali in modo naturale, come un percorso che si scopre suono dopo suono.
Alla chitarra classica hai dedicato due lavori distinti: la Sonata e lo Studio meditativo su Gesualdo. Opere molto diverse, anche nel modo di “abitare il tempo”. Ce ne parli?
Un singolo pezzo non può mai rappresentare completamente l’essenza del lavoro complessivo di un compositore. È necessario un insieme di opere per delineare un quadro più fedele, e solo l’insieme totale dei suoi lavori può ricomporre il puzzle completo della personalità dell’autore. A volte questa totalità di opere contiene anche cose molto differenti. Nel mio caso infatti, queste opere spesso dialogano con vari aspetti e suggestioni culturali. Sono sinceramente affascinato da molteplici contesti culturali che mi colpiscono profondamente: dalla musica del Rinascimento a quella barocca, fino alle infinite sfumature della contemporaneità. La mia concezione del tempo si basa sulla ri-contestualizzazione, senza particolari preclusioni. Abitare il tempo è una conquista che deriva dall’esperienza, ed è qualcosa a cui non intendo né posso rinunciare.
La Sonata mi fu commissionata da Sante Tursi, a cui è dedicata e che ne realizzò la prima esecuzione. È stata anche la mia prima esperienza compositiva per chitarra sola, una sfida tutt’altro che semplice. Si tratta di un lavoro consistente, della durata di circa quindici minuti, articolato in tre movimenti, ciascuno caratterizzato da tecniche e intenzioni compositive distinte e combinate. Il primo movimento, ‘Ian Curtis Voodoo’, si sviluppa attraverso una polimorfia di aspetti e tecniche sonore; al suo interno troviamo un intreccio di ritmi e modalità esecutive che evocano una gestualità quasi teatrale. Questa prima parte prende il nome dal cantante dei Joy Division, una band post-punk iconica: Ian Curtis, affetto da epilessia, si esibiva con movimenti convulsi e tormentati, quasi come un rito per esorcizzare la propria condizione. La sua fragilità mi affascinava perché trasmetteva un senso autentico, unico rispetto agli altri performer del tempo. Ho voluto che la musica riflettesse quello stato mentale di profonda agitazione e tormento. Il secondo movimento, un adagio lirico intitolato ‘The Slow Young’s Prayer’, contrasta con l’intensità del primo, mentre il terzo, ‘Final’, presenta notevoli difficoltà tecniche legate al controllo espressivo del suono con i suoi accordi ribattuti. La composizione ‘Studio meditativo su Gesualdo’ è molto diversa dalla sonata e si distingue per la sua compattezza e per la coerenza espressiva ben delineata. Si avvicina a pratiche chitarristiche più tradizionali, ma al contempo si slancia verso un lirismo inquieto, proprio a richiamare quello stile cromatico gesualdiano carico di elementi espressivi.
In generale, aspiro sempre alle tecniche miste e soprattutto alla diversificazione del lavoro compositivo. Non mi identifico con quegli autori che insistono continuamente sul medesimo materiale: questo approccio rischia di trasformarsi in una vera e propria affermazione ripetitiva e ossessiva più che in una rivendicazione dell’identità artistica. Al contrario, credo fermamente nella forza narrativa di un linguaggio multiforme.
Per me abitare il tempo significa dialogare con la memoria, ricomporre creativamente le amnesie e plasmarle in una scrittura capace di evocare nuove prospettive.
Un lavoro imponente come Memorie di Eliogabalo porta in scena una figura storica complessa e controversa. Qual è stata la genesi del progetto e come hai tradotto il libretto e il personaggio nella scrittura musicale?
‘Memoirs of Elagabalus’ è un’opera su libretto in inglese scritta in pochissimo tempo, se non ricordo male, in ventidue giorni. Fu una commissione proposta da Michael Kerstan (che ne curò anche la regia) per la stagione musicale estiva della Audi (la casa automobilistica di Ingolstadt in Germania). Anche in quel caso la chitarra svolge un lavoro di cucitura temporale e stilistica fra un passato immaginario arcaico e l’aspetto contemporaneo. Di quel lavoro sono state fatte una decina di repliche da El Cimarron Ensemble in Europa ma anche negli Stati Uniti. La figura di Eliogabalo è stata trattata da diversi autori, per esempio in musica da Francesco Cavalli già nel 1667 (aggiunse dei castrati ma l’opera originale venne poi ritirata e riadattata perché considerata scandalosa e licenziosa per quei tempi) e nel ‘900 da Hans Werner Henze e Sylvano Bussotti; nel teatro e nella letteratura da Antonin Artaud, Alberto Arbasino ed altri. La personalità di Eliogabalo era un elemento che musicalmente poteva dotare la mia scrittura musicale di quegli aspetti di mobilità e liquidità a cui tendo. La figura dell’imperatore romano risultava essere ambigua e fuori dal genere maschile e femminile, inoltre le componenti religiose e sessuali erano legate in un’unica visione, come è tipico nelle religioni orientali e arcaiche. Tutti questi aspetti offrivano molte possibilità alla musica al fine di rendere la scrittura un linguaggio polimorfo e, anche in questo caso, sincretico. Il mio Eliogabalo è folle, poeta dal carattere mutevole ed eccentrico. Dal punto di vista musicale il ruolo dell’interprete è affidato a un baritono in una parte molto fisica, difficile, anche perché canta in tutte le possibilità che una voce maschile ha disposizione, compreso il falsetto (tutte le esecuzioni sono state dal bravissimo e versatile Robert Koller). Musicalmente c’è una grande energia, nonostante l’economia dei mezzi: flauti un esecutore, una chitarra e le percussioni, in pratica lo stesso organico del El Cimarron di Henze. Se i flauti e le percussioni vanno in simbiosi con le sequenze drammaturgiche di Eliogabalo, la chitarra svolge un ruolo di ‘cucitura’ stilistica e temporale fra tutti gli elementi teatrali e crea l’ambiente interiore (nel senso psicologico del termine) in cui l’opera si muove. Il libretto di questo lavoro è stato direttamente scritto in inglese dal fisico matematico Fabio Ciolli, mio amico di lunga data, con una traduzione a fronte per consentirmi di conoscere bene e in fondo il significato di ogni frase. Musicando l’opera in inglese, ho potuto scoprire direttamente nella sillabazione (ridotta, nel rapporto parola-senso, rispetto all’italiano) molte soluzioni musicalmente immediate, con motivi lirici assai funzionali. Sappiamo tutti, appunto, che l’italiano, vista la quantità di sillabe, anche in una singola parola, ci costringe a utilizzare molte note, pratica che certamente ha dato origine ai capolavori operistici e alla grande musica, ma di fatto costringe gli autori, soprattutto contemporanei, a dei veri e propri ‘salti mortali’ per giungere a qualcosa che si distacchi dai cliché, spesso fastidiosi (soprattutto se utilizzati in chiave modernista) della cultura operistica del passato.
Dal 2017 curi su RadiostArt una trasmissione dedicata alla Nuova Musica. Qual è oggi, secondo te, il ruolo della divulgazione e come può arrivare davvero a un pubblico più ampio?
Il primo passo importante per la divulgazione della musica contemporanea è quello di trasmettere il patrimonio emotivo della musica e degli artisti.
Questo significa esplorare e osservare, cercare di comprendere con la giusta sensibilità e in modo analitico le pubblicazioni, i video, i post sui social, i concerti, i testi letterari, i film, le migliaia di generi che si accavallano che ogni giorno e prolificano, si manifestano in rete sui canali ufficiali e indipendenti da ogni parte del mondo.
A tutt’oggi ho pubblicato 368 podcast con interviste a molti importanti autori e presentazioni di musica nuova e storicizzata. Trasmetto da Pescara su RadiostArt ogni lunedì notte. Per ogni puntata della mia trasmissione Clocks and Clouds contiamo una media di 90.000 ascoltatori.
La musica che trasmetto, a volte è radicale, altre volte meno, ma comunque fa parte dei molti aspetti della contemporaneità di ricerca.
Il successo di queste puntate risiede proprio nell’eterogeneità del pubblico: non tutti gli ascoltatori provengono dal mondo classico. Se così fosse l’audience sarebbe limitata a pochi appassionati, sempre gli stessi, come avviene spesso da noi in eventi e concerti tematici. Al contrario, molte persone si avvicinano alla trasmissione provenendo da ambiti musicali molto diversi, come la techno sperimentale, il jazz europeo, le avanguardie newyorkesi, il rock sperimentale, l’ambient e persino il metal estremo. Gli ascoltatori di Clocks and Clouds difficilmente si orienterebbero verso la musica commerciale perché non è ciò che li attrae, né rappresenta il loro punto di riferimento principale. Essi provengono da ambienti culturali in cui la musica non è ridotta al puro intrattenimento, ma assume un ruolo profondo e personale come compagna esistenziale del tempo e dello spazio. Questo li porta, oltre il loro universo musicale abituale, a interessarsi a opere di artisti come Karlheinz Stockhausen, Loscil, Luigi Nono, Alva Noto, Morton Feldman, Miles Davis, Georg Friedrich Haas, Sunn O))), Steve Reich, Robert Henke, Unsuk Chin, Jimi Hendrix, Arnold Schönberg ecc. ed è questo lo stile radiofonico che programmo ormai da anni. Credo che questo sconfinamento faccia bene sia agli ascoltatori ‘classici’ che a quelli che per la prima volta ascoltano Xenakis.
In base alla tua esperienza anche come programmatore, come descriveresti la scena della musica contemporanea attuale?
Questo periodo rappresenta uno dei capitoli più ricchi e stimolanti nella storia della musica. Mai come oggi possiamo usufruire di una tecnologia avanzata ed efficiente che ci consente di essere costantemente connessi e di accedere a una quantità e qualità musicale impressionanti, una cosa impensabile fino a una ventina d’anni fa. Abbiamo assistito alla realizzazione del “miracolo Indie”.
In questo momento si sta costruendo un ponte tra diverse generazioni di fruitori, come dicevo, provenienti da contesti molto differenti. È un fenomeno che si era già manifestato negli anni ’70, quando la musica di ricerca aveva grande diffusione e riusciva a penetrare nelle pieghe più sottili della società. La musica sperimentale, allora, viaggiava di pari passo con gli altri linguaggi culturali e veniva associata all’immagine sperimentale, alla moda, alla comunicazione, al cinema, alla poesia, alla letteratura, alla performance e al teatro.
Successivamente qualcosa è cambiato: mentre gli altri linguaggi hanno mantenuto un certo dialogo, la musica ‘classica contemporanea’ ha vissuto un periodo di isolamento.
Si è progressivamente iper-specializzata, indirizzandosi a un pubblico sempre più esclusivo, fino ad arrivare ad una autoreferenziale solitudine. Oggi, però, questa chiusura sembra aver trovato diverse strade e possibilità di apertura anche per quella musica iper-tecnica.
Tuttavia, come diceva Luciano Berio nella famosa trasmissione televisiva, C’è musica e musica, l’accessibilità universale e la possibilità per chiunque di pubblicare contenuti sulle piattaforme digitali richiedono un indispensabile processo di selezione.
È però inquietante constatare che le istituzioni, specialmente in Italia, ignorino questo momento storico e scelgano deliberatamente di concentrare i propri sforzi su programmi tradizionalisti (anche di una tradizione fake che non esiste e non è mai esistita prima, totalmente reinventata e scenografica, nello stile dei regimi totalitari) o nazionalpopolari.
Questa indifferenza culturale verso l’emancipazione dei linguaggi contemporanei, è particolarmente grave in un periodo in cui la musica nella ricerca di grande livello ha raggiunto il culmine della propria espansione e capacità comunicativa. Tale ‘sganciamento’ culturale, accompagnato da un crescente provincialismo e dall’abitudine di identificarsi esclusivamente con chi condivide le stesse idee, è innanzitutto antistorico e sintomo di una evidente fragilità intellettuale, sociale e politica. Si tratta dell’ennesima forma di ‘protezionismo’ che difende un mondo chiuso e semplificato, ostile alle diversità e refrattario alla ricchezza del confronto con il diverso, un mondo destinato inesorabilmente a produrre arretratezza e imbarbarimento su tutti gli aspetti della società.
Con la scena italiana siamo di fronte, nonostante situazioni resistenti e di natura internazionale, a una vera débâcle della musica contemporanea, sia di quella storicizzata che attuale. Le istituzioni, sempre più pavide e timorose di perdere abbonati e sovvenzioni, stanno via via smantellando tutto ciò che fa parte di qualcosa che non rientra nel nazional-popolare. Forse non si rendono conto che è proprio così che appiattiranno il gusto del pubblico operando una vera e propria distruzione della necessaria diversificazione culturale.
La differenza tra ciò che rende un paese provinciale e arretrato con uno emancipato e aperto sta proprio nella programmazione artistica.
Non incuriosirsi alle nuove poetiche artistiche, alla dinamicità del periodo storico, al sincretismo culturale, alla valorizzazione delle differenze dei linguaggi artistici e alle loro possibili combinazioni, risulta essere davvero un suicidio sociale e culturale. Per non parlare poi di quelle istituzioni che assecondano e soddisfano le voglie propagandistiche di quella politica che cerca solo visibilità attraverso qualsiasi strumento di diffusione, condizionando e mettendo sotto scacco la musica, gli spettacoli, gli eventi e i concerti, i teatri, dove tutto è intriso di politica/partitica che sta portando ad un disastroso impoverimento.
Anche la musica contemporanea programmata vive purtroppo delle profonde contraddizioni. L’aspetto della programmazione che continuo a trovare imbarazzante è l’eccessivo accentramento sulla celebrazione di pochi nomi, sempre gli stessi, (quel tipo di programmazione per sentito dire, oppure per sentirsi parte di qualcosa tipo “anch’io lo programmo quello li”).
Personalmente, considero fondamentale e più stimolante una visione culturale ampia e articolata, piuttosto che ridursi alla ‘santificazione’ di poche figure principali. Per me, è il tessuto culturale nel suo insieme ad essere importante e generativo di qualità diffusa, non la ripetizione dei programmi più o meno senza idee e con sempre i soliti autori. Spesso anche gli interpreti gravitano, accodandosi, attorno a questo circuito che celebra un numero chiuso di autori, contribuendo così a restringere ulteriormente il panorama culturale.
Al contrario, nutro grande stima per quegli interpreti ricercatori, intelligenti e coraggiosi, capaci di riscoprire e proporre tanti autori diversi, portando alla luce repertori e interpretazioni che arricchiscono e rinnovano il contesto culturale contemporaneo. La cultura dell’oggi, infatti, che lo si veda o no, si compone di un mosaico ricco e variegato. Escluderne la maggior parte delle componenti e concentrarsi solo su pochi tasselli significa creare una visione parziale e incompleta, che non riflette la reale complessità e vitalità del nostro tempo.
Per curiosità, suggerisco un sito che si chiama everynoise.com che cataloga e fa esempi d’ascolto di tutti i generi esistenti. Questo sito si aggiorna settimanalmente e conta decine di migliaia di generi, sottogeneri e derivazioni varie con autori, interpreti e repertori. La situazione è davvero incredibilmente ricca e imprendibile.
Nel 2026 ricorrerà il centenario della nascita di Hans Werner Henze, tuo maestro e amico. Vuoi condividere un ricordo personale e dirci quale pensi sia la sua lezione più viva ancora oggi?
L’eredità più importante di Hans Werner Henze è sicuramente legata alla sua musica, in tutte quei legami con la ricerca della bellezza senza compromessi e nella lontananza dal potere dogmatico e impositivo delle accademie integraliste. Un altro aspetto importante della sua eredità è anche quello della nascita della pedagogia sociale con la creazione del Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano. Henze è un riferimento per tutti i compositori che hanno a cuore la libertà e l’amore per la musica del ‘900 e del passato. Un ricordo personale e legato proprio a prima che scrivessi la sonata per chitarra sola. Dissi al Maestro che avevo in programma la composizione di un pezzo lungo e impegnativo per chitarra ma non sapevo come cominciare perché non avevo mai scritto nulla prima per questo strumento. Mi disse: “Pensa alla chitarra, immagina lo strumento e scrivi liberamente, sarà il chitarrista a dirti cosa si potrà fare e cosa non si potrà fare”. Subito dopo cominciai a scrivere la sonata senza interruzioni. Alla fine, ciò che avevo composto era quasi tutto suonabile. Di ricordi di Henze ne ho tantissimi ma le cose più persistenti che mi vengono in mente sono legate alla sua forza e convinzione per difendere il lavoro e il ruolo del compositore, all’amore per la cultura in generale, alla libertà di ispirarsi al totale artistico ed esistenziale.
Una delle domande ricorrenti che mi faceva, ogni volta che sentiva un mio pezzo era ‘Perché? Perché hai scritto questo passaggio?’. Ogni ‘perché’ diventava un viaggio interiore e un motivo di impegno ulteriore. Le ragioni, anche irrazionali, sono i temi e i ‘perché’ su cui baso la mia ricerca.
Per concludere: quali sono i progetti su cui stai lavorando ora?
Sto lavorando su più fronti: uno quello cameristico con diversi organici e progetti. Ho poi una serie di registrazioni che curo personalmente, dall’esecuzione alla presa microfonica. Si tratta di un approccio solipsistico che mi ha già portato (devo dire con successo) alla pubblicazione di alcuni concept-album monografici.
Vorrei continuare con un lavoro totalmente registrato in solitudine con vari strumenti; suonerei anche le percussioni, alcune corde auto costruite, oggetti, pianoforte e sicuramente elettronica.
L’altro progetto è un’opera dedicata a un artista che tantissimo ha influito sulla cultura concettuale del ‘900. Voglio proseguire con la radio, perché è un aspetto della diffusione in cui credo fermamente e per il quale tantissimi mi chiedono di continuare. Questo spazio radiofonico è infatti un punto di riferimento che credo non si possa più ignorare. Poi vorrei continuare con un paio di promozioni: una è quella del mio libro ‘Il Codice del Silenzio’, sono in programma infatti varie presentazioni in diversi festival e istituzioni italiane; la seconda è quella del mio ultimo album monografico Forest che è uscito da pochissimo.
L’obiettivo principale di tutto rimane quello di catturare con la musica, o con qualsiasi altro mezzo di scrittura, il patrimonio emotivo delle cose che percepisco dentro e intorno. Mi permetto di citare uno dei 64 esercizi sulla consapevolezza nel primo capitolo del mio libro Il Codice del Silenzio:
“Non tutto ciò che è importante nella musica è percepibile dall’orecchio. La Musica non può essere prodotta al solo scopo di sollecitare l’ascolto come unico parametro della percezione. Una composizione deve estendere la propria azione mentale oltre il suono. Non spingersi aldilà di un bel timbro, di un bell’accordo o di un bel ritmo è rimanere in uno stato superficiale. Non vedo cosa ci sia di interessante in una composizione se tutto ciò che abbiamo è unicamente racchiuso in parametri fisici ben sistemati.”
About The Author
Pierpaolo Dinapoli
Studia chitarra e musica elettronica nei Conservatori di Milano, Darmstadt e Foggia. Si occupa da anni della diffusione del repertorio contemporaneo. Suona con Azione_Improvvisa Ensemble. Nel tempo libero scrive di fumetti e giochi da tavolo.